Agroalimentare: ripartire tutelando il Made in Italy

La filiera agroalimentare ha tenuto bene in questi mesi, testimoniando la solidità di un settore chiave dell’economia nazionale. Non sono mancati però contraccolpi che ora vanno affrontati facendo leva sull’italianità della produzione

Pubblicato il 14 Giu 2020

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Qual è stato e quale sarà l’impatto a medio e lungo termine provocato dall’emergenza sanitaria Covid-19 sulla filiera agroalimentare? Vogliamo fare chiarezza su quello che è stato il vissuto del consumatore e le preoccupazioni che hanno inciso sul rapporto nei confronti con il cibo e la spesa; su come è stata affrontata la riorganizzazione del lavoro nelle aziende della filiera, i colpi incassati e le difficoltà da affrontare; infine, sul ruolo determinante della promozione del Made in Italy per la futura ripresa del Paese e delle eccellenze agroalimentari.

I grandi timori che hanno tormentato i consumatori

Durante il dilagare del Coronavirus, i consumatori hanno vissuto sulla loro pelle grandi preoccupazioni. In una prima fase, hanno avuto paura di non riuscire a procurarsi cibo a sufficienza. Questo timore ha causato veri e propri assalti ai supermercati e ha portato a compiere acquisti poco oculati, spesso preferendo alimenti a lunga conservazione, come latte, e salumi e formaggi e, in alcuni casi, un consumo eccessivo e un aumento dello spreco alimentare.

Un altro diffuso timore è stato quello che il cibo in generale e gli alimenti di origine animale in particolare potessero costituire un veicolo per la trasmissione del virus. Una paura infondata vista la disponibilità di dati che dimostrano come le specie di interesse zootecnico non si ammalano, non siero-convertono, ossia non producono anticorpi, e quindi non giocano nessun ruolo come veicolo di questa infezione.

Covid-19: le fake news sugli animali e sul cibo

Secondo dati attendibili, gli animali di interesse zootecnico non si ammalano e quindi non giocano un ruolo epidemiologico nella diffusione di questa infezione. Tra le numerose specie ipoteticamente suscettibili all’infezione, il gatto può presentare delle forme lievi, il furetto forme respiratorie più gravi, ma né i suini né il pollame si sono infettati, quindi questo virus non riesce a replicarsi nelle cellule di questi animali. Anche inoculando dosi generose del virus all’interno delle cavità nasali delle specie animali esaminate, il virus è ben adattato solo alla mucosa delle cellule umane ed è questo il meccanismo con cui può essere trasmesso. Inoltre, nessuna delle 35 specie animali considerate, presenta degli anticorpi nei confronti di questo virus, il che suggerisce che questi non possono avere avuto contatti con il virus e il loro sistema immunitario non può avere risposto anche in modo asintomatico a questa infezione.

Esistono virus presenti nel mondo animale ma non associabili a questo virus in particolare, che comporta forme respiratorie gravi. Questo virus ha origine animale, perché sappiamo che il serbatoio di questi virus respiratori è il pipistrello, non sappiamo se c’è stata una specie intermedia che ha facilitato la trasmissione all’uomo, ma ora è un virus umano trasmesso da uomo a uomo. E se è vero che gli animali non si infettano, è vero che i loro prodotti non possono veicolare questo virus. Quindi gli alimenti di origine animale sono di fatto alimenti privi di pericolosità, per questo particolare virus.

La rodata organizzazione della filiera ha garantito un’approvvigionamento costante

E’ assolutamente vero però che superficialmente tutti gli oggetti inanimati fra cui alimenti di origine animale e vegetale, ma anche vestiti e scarpe, possono essere contaminati tramite trasmissione indiretta dall’uomo e diventare fonte passiva della contaminazione. Qualsiasi prodotto alimentare ha la stessa funzione che può avere la maniglia di un mezzo di trasporto: entrambi possono veicolare passivamente secrezioni infette che è sempre l’uomo a generare toccando i materiali con le mani non igienizzate o tramite le gocce d’acqua o droplet di uno starnuto.

Per questo motivo è stato cruciale rafforzare le misure igienico-sanitarie lungo tutta la filiera di produzione degli alimenti già sotto severo controllo con il sistema HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) che mira a garantire la salubrità degli alimenti monitorando ogni fase del processo produttivo. Quindi, norme già applicate normalmente, che sono state però rafforzate per esempio con l’utilizzo di dispositivi di protezione come mascherine e guanti obbligatori per il personale addetto, ma anche per tutti i clienti che intendono accedere alla GDO.

Sin dai primi giorni di contagio, c’è stato un grande dispiegamento di forze per mettere in sicurezza i lavoratori e applicare protocolli molto stringenti. È stato necessario rallentareturni, garantire il distanziamento, riconvertire parte della produzione. Tutto questo è stato fatto in tempi molto rapidi e ha significato un grande impegno economico che non è stato riversato sui prodotti ma è stato assorbito dalla filiera.

L’impatto del Covid-19 è stato molto pesante: in una fase iniziale c’è stata una sovrapproduzione per soddisfare un picco di richiesta della popolazione. Non è stato facile per i lavoratori e le imprese continuare a lavorare mentre tutto il Paese era completamente fermo. Per fortuna, essendo un settore abituato a rigide norme igienico-sanitarie è riuscito facilmente ad adattarsi alla situazione di emergenza.

Questo senso di responsabilità ha garantito un approvvigionamento costante, rispondendo quindi ad un’altra delle principali preoccupazioni dei consumatori. Infatti, la produzione di alimenti di origine animale, quali bovini, ovini, avicoli e prodotti caseari, non si è mai fermata. Anzi, soprattutto nella prima fase della pandemia, tutti gli impianti produttivi hanno affrontato una grande richiesta da parte dei consumatori.

La chiusura dell’Ho.re.ca e le gravi perdite accusate

La filiera italiana agroalimentare non si è mai fermata e ha saputo rispondere anche alla grande richiesta che ha caratterizzato la prima fase di assalto agli scaffali, continuando comunque a tutelare la sicurezza dei suoi 3,6 milioni di lavoratori. Tuttavia, questo non significa che non abbia risentito della situazione.

Basti pensare all’immediata riduzione della velocità di produzione e ai distanziamenti sociali obbligati che hanno naturalmente abbassato la produttività. Ma anche alla diminuzione di circa il -20-25% della capacità di macellazione a causa delle numerose assenze dei lavoratori nelle aziende che si trovavano nelle zone più colpite e alla chiusura del canale Horeca e del mondo del Food service, settori che rappresentano il 25% del fatturato delle aziende associate, che ha generato una grossa diminuzione della domanda di prodotti finiti.

Proprio questa chiusura ha portato a una diminuzione del -30% di fatturato: uno spaccato importante sulla crisi vissuta dalle eccellenze del Made in Italy rappresentate dal comparto dei vini, dei salumi (di cui l’Italia è il principale esportatore) e dei formaggi che hanno registrato un calo rispettivamente del -40%, -35% e del -45%, e dichiara una decrescita del -13% sull’export, dovuto ai disguidi logistici che nelle prime settimane si sono susseguiti anche con i paesi limitrofi e ad un rallentamento dovuto al lockdown di tutti i paesi principali di destinazione dei nostri prodotti, primi tra tutti Germania, Stati Uniti e Francia.

L’importanza di preservare il Made in Italy per la ripartenza

Il comparto quindi non si è fermato, ma vive comunque momenti di difficoltà che necessitano di supporto e rilancio. Soprattutto perché il lockdown non ha generato solo un blocco temporaneo delle attività per molti settori produttivi con ripercussioni che si faranno sentire anche nei mesi a venire. Previsto è un calo dei consumi alimentari, sia domestici che del food service, perché probabilmente le persone tenderanno a recarsi meno al ristorante e poi, il differenziale temporale che oggi c’è con gli altri Paesi e le altre economie, che lentamente riapriranno i loro canali Horeca, comporterà danni molto importanti.

Cosa ci ha insegnato tutto questo? Ci insegna che produrre alimenti e, in particolare, prodotti di origine animale è molto importante. Lo abbiamo visto in questo periodo difficile, in cui però abbiamo sempre potuto contare sull’alimento disponibile. Questo non è scontato e ci deve far capire quanto sia importante che ci sia una sorta di auto-approvvigionamento al di sotto del quale non si deve mai scendere. Bisogna capire che chi produce alimenti, chi lavora nell’agricoltura, chi alleva animali deve essere tutelato perché fornisce un contributo fondamentale alla società. È il Made in Italy, quindi, ad essere la realtà da preservare e da cui ripartire per far fronte a questa situazione, un punto fermo specialmente quando si parla di prodotti freschi e di carni di filiera. Basti pensare alle carni avicole, per cui l’approvvigionamento italiano vale il 99,8% del totale.

Ora quello che serve è un supporto dalle Istituzioni e dal Governo non in termini di contributi diretti ma di aiuto nella promozione e nella difesa del Made in Italy, ricordando che la maggior parte delle aziende agricole italiane non sono grandi gruppi industriali e avrebbero difficoltà a riprendersi qualora la crisi si esacerbasse. Per affrontare le sfide future e continuare a garantire un adeguato rapporto qualità-prezzo dei prodotti italiani è quindi imprescindibile mettere in atto una logica di sistema, basata su un dialogo costante tra tutti gli attori coinvolti: produttori, catena di distribuzione e consumatori.

Un sigillo per proteggere la produzione 100% italiana

Sul tema del Made in Italy una risposta concreta è già arrivata dal Consorzio Sigillo Italiano che può divenire un simbolo di eccellenza e qualità italiana immediatamente visibile al consumatore nel momento in cui sceglie un prodotto e lo mette a confronto con altri. Parte del progetto Piano Carni Bovine Nazionali, presentato al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari, Forestali e del Turismo si propone di definire un sistema di qualità per dare un nome alla carne bovina prodotta in Italia con un mercato oggi caratterizzato da un’importazione del 47% di carne estera e dove le certificazioni DOP, IGP e STG rappresentano solo il 20% delle produzioni, mentre l’80% viaggia in forma anonima.

Una riprova è l’esperienza della catena il Gigante, dove in questo periodo di emergenza, con numerosi appelli a scegliere il Made in Italy, la vendita di carne a marchio Sigillo Italiano ha registrato un aumento del +15%. L’auspicio è queste azioni siano presto accompagnate da un’azione istituzionale volta a rendere obbligatoria la tracciabilità dei prodotti anche nell’ambito della ristorazione.

La sfida è quella di trasmettere al consumatore il valore aggiunto legato alla produzione bovina italiana, giustificando il prezzo dei prodotti ed evitando ulteriori ribassi, che possono contribuire a mettere in crisi il sistema di allevamento italiano e conseguentemente la filiera, specialmente nel contesto dell’emergenza Covid-19 in cui si è registrato un progressivo calo nei prezzi. Da questo punti di vista un ruolo importante è ricoperto anche dalla GDO, da cui ci si aspettano logiche di collaborazione per difendere la produzione italiana.

Immagine fornita da Shutterstock.

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